La Pagina
Culturale
LA
MORTE BAROCCA
Gli ultimi giorni di un condannato alla
pena capitale nella Messina del Seicento
In questa
mattinata seicentesca vi è fermento nella sacrestia della chiesa di
Nostra Donna della Pietà, nella strada dei Monasteri; i confrati
della nobile Arciconfraternita di Santa Maria della Pietà, detta
degli Azzurri, stanno dando gli ultimi tocchi ai preparativi per la pietosa
cerimonia cui attendono ormai sin dal 1542: il conforto e
l’assistenza spirituale dei condannati a morte. Stavolta si tratta di
un personaggio di spicco nell’ambiente culturale messinese, certo
Giorgio Lascaris da Costantinopoli che nel mese di maggio del 1594, dal
Collegio greco di Roma dove entrò a 17 anni completando gli studi di
teologia e addottorandosi in filosofia, venne inviato a Messina per
insegnare il greco ai monaci del monastero di S. Basilio.
Fuori piove a dirotto.
I confrati
confabulano fittamente fra di loro; qualcuno, più informato degli
altri, racconta che il Lascaris è stato condannato a morte per “haver ammazzata una donna
pubblica con la quale aveva mala pratica, con una serva gravida di cinque
mesi, havendola di più
assassinata di tutti i suoi ori et argenti”. Giorni prima, come
di consueto, un ministro della giustizia aveva fatto pervenire al Padre
Governatore dell’Arciconfraternita, D. Pietro del Pozzo, un biglietto
della Regia Corte Stratigoziale in cui veniva chiesto se “si compiaceranno le VV. SS.
Ill.mi di fare la sua solita Carità di recordarlo nella Cappella et
associarlo insino alla Morte”.
La pia Congrega
s’era quindi subito messa in moto: da lunedì 7 a giovedì 10
ottobre, oggi, è stato un continuo via vai di confrati tutti presi a
confortare il condannato, ad assisterlo nei momenti brutti, a tenergli
compagnia perfino la notte, dormendo con lui.
I confrati sono
ancora impegnati nella loro vestizione; tuniche azzurre si vedono sparse
per la stanza. Uno
di loro si lamenta ad alta voce imprecando perché la sua è
ormai consumata dal troppo uso e un giorno o l’altro dovrà
decidersi a portarla a riparare; un altro guarda fuori attraverso la
finestra e maledice il tempo e la pioggia che non accenna a diminuire, quando,
la porta si apre ed entra un membro della Confraternita che con voce calma
e solenne annunzia: “non si fa
questa mattina la giustitia per la pioggia et si pigliò risolutione
con lo stratigò di farse poi di magnare sendo buon tempo”.
Non resta altro da fare che “licentiare
li fratelli, li quali furon essortati dal Padre Governatore avenire dopo
magnare a complire l’opera tanto caratativa”.
Dopopranzo smette
di piovere e il sole beffardo esce dalla nuvolaglia a riscaldare coi suoi
raggi la città immersa nel torpore pomeridiano. Nuovamente vengono
radunati i confrati e ad ognuno degli intervenuti viene affidato il proprio
compito secondo l’ordine e l’ufficio preso nel corteo, in
conformità ai Capitoli del Nobile Sodalizio: Scipione Alifia,
“maestro di cerimonie”; Benedetto Dini,
“crociforo”; Giuseppe Alifia, Giovan Battista D’Ambra,
Micheli Sergi e Antoni Jacopo Sambasili, “aiutanti et torce”;
Ansalone Ansalone, “aspersorio”; Giovanni Pietro Lo Castello e
Filippo Gotho, “confortatori”, dal Castello di Matagriffone
sino al luogo dove verrà eseguita la giustizia; Filippo Gotho,
“oratione alla scala”; D. Tomasi Di Gregorio e Antoni Jacopo
Lintini et S. Basili, “choristi” ed infine,
“lettori”, Giuseppe Alifia la prima lettura, Vincenzo Angelica la seconda Rev. Don
Lorenzo Abbate la terza.
Dopo un rapido
controllo per vedere se ci sono tutti e ultimati i preparativi, Scipione
Alifia decide che è giunto il momento di iniziare. Il triste corteo
esce dalla chiesa e si snocciola lentamente per le strade ancora bagnate,
diretto verso le tetre prigioni del Castello di Matagriffone. Giunto in
prossimità della scalinata che conduce al castello, il corteo si
ferma: è arrivato il momento delle “orationi alla
scala”. Filippo Ghoto si schiarisce la gola con piccoli colpi di
tosse e inizia a recitare le orazioni con voce salmodiante, con esasperante
lentezza, tanto, non ha fretta.
Ha ripreso a
piovere.
Il suono delle sue
parole si diffonde per l’aria caliginosa, tutti ascoltano in un
silenzio innaturale, senza tempo. Per la verità oggi Filippo Gotho
non si sente tanto bene e le sue orazioni non hanno quello smalto e quella
solita potenza espressiva delle passate cerimonie: sarà stato forse
il gallinaccio e le bragiolette o i maccaroni con il sughiglio di mezzogiorno,
un po’ pesanti da digerire.
Comunque, bene o
male, le orazioni vengono portate a termine.
Una porta del
castello si apre e vi esce il condannato seminudo con le mani legate da
dietro, scortato da guardie. Viene fatto salire su un carro sotto gli
sguardi avidi di curiosità del popolino dopodiché la
processione riprende il suo cammino. Molti abbandonano il corteo
precedendolo a passo svelto, diretti verso il luogo dove è stata
issata la forca con l’intenzione di accaparrarsi i posti migliori da
dove poter assistere allo “spettacolo”.
Nuovamente la
processione azzurra passa davanti alla chiesa di Nostra Donna della
Pietà ed al Monte di Pietà, imbocca la strada del baron di
Spaccafurno (l’attuale via
Munizioni) giungendo a quella della Correria (tratto
dell’attuale corso Cavour) da dove prosegue verso la strada nuova
(odierna via Primo Settembre) per arrivare, infine, al Piano di Santa Maria
dinanzi al Palazzo del Senato, “alla Marina” presso il fonte
Nettuno dove si trova allestito il palco con la forca.
Il condannato
viene fatto scendere dal carro e s’incammina verso il patibolo. Trema
di paura; gli altri diranno poi che si trattava semplicemente del freddo di
queste inclementi giornate. Alcuni spettatori sono affacciati alle eleganti
balconate della Palazzata; le dame incipriate si proteggono dalla pioggia
che continua a venire giù implacabile con eleganti quanto poco
funzionali ombrellini di seta.
Il boia cinge il
collo del Lascaris con la ruvida corda del cappio; sale alle sue narici
dilatate l’acre odore della salsedine marina. I gabbiani schiamazzano
attorno ad un peschereccio che si avvicina al molo per scaricare.
É un tipico
pomeriggio messinese, snervata ora di un pomeriggio sciroccoso in cui tutte
le cose sono ferme, ovattate da una luce irreale, calda e quieta.
Il condannato gira
lo sguardo intorno, ha paura della morte. É un attimo, la corda si
tende, le immagini dapprima ferme adesso traballano, diventano deformi, si
storcono, il mare cambia di colore, le voci si fanno sempre più
flebili, diventano echi lontani mentre il corpo si contorce sotto gli
ultimi spasimi di vita.
Ha smesso di
piovere. I gabbiani continuano a schiamazzare.
Di Giorgio
Lascaris, professore di greco nella Nobile Città di Messina, rimane
un sintetico verbale stilato in fretta tra le pagine di un ponderoso
librone con gli atti della Confraternita, rimasto aperto proprio nel punto
dove dice: “…et dopo se
ne andò per la maestra strada al piano insino alla marina nella
furca ordinaria ove arrivati fatte le solite attioni che si sogliono fare
in aiuto dalli afflitti si esseguì la Giustitia contro quello
poveretto il quale con gran divotione accettò questa morte.
Così piaccia al Signore concederli il luogo di perpetuo riposo
siccome noi indegnamente per l’anima sua ni habbiamo pregato fattoni
fare orationi. Fatta la giustitia ritornammo in oratorio dove si disse il
p.o notturno dell’ufficio di morti conf.te al solito per
l’anima del derelitto et dopo ce ne andammo a casa. D. Vincenzo Ferrarotto,
Cancelliere.”.
Nino Principato
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