
La Pagina
Culturale
Il Cimitero monumentale di Messina
Monumento all’incuria di questa“vil razza dannata”
“Il grande camposanto di Messina, ammirato da
tutti gli stranieri, ed ultimamente richiesti con insistenza i disegni dal
prof. Moritz Schultz della scuola di Belle Arti a Berlino, per essere
inseriti in quella famosa pubblicazione periodica illustrata di
architettura, come uno fra i più bei monumenti moderni degni di
studio, attesta inequivocabilmente il merito artistico del Savoja”. Questo brano, tratto dalla commemorazione di Leone Savoja,
che l’ingegnere e architetto Michele Basile scrisse nel giugno del
1885, meglio di qualunque altro si presta a sottolineare la bellezza
architettonica di un “unicum monumentale” che proiettò
Messina nel novero delle grandi città europee.
Nel progettare il
cimitero monumentale (posto a concorso dal Comune di Messina nel 1853-54,
iniziato nel 1865 ed ultimato
nel 1872), si può senz’altro affermare che Leone Savoja fu
vero e proprio interprete della corrente del Romanticismo a Messina,
perché attiene al gusto del romantico la sua sistemazione
urbanistica: quella dell’architettura dei giardini. Cultura
tipicamente anglosassone ed amore per la natura, per il paesaggio, per gli
spazi scenograficamente aperti alla panoramicità, porteranno il
Savoja a scegliere non una zona qualunque della città, ma quella
zona, l’unica che avrebbe dato risalto al tono celebrativo che si era
prefisso. Il Gran Camposanto, oggi, rappresenta l’unica memoria
storica delle notevoli qualità artistiche, stilistiche e formali
raggiunte dai nostri scultori ed architetti nel XIX secolo. Il terremoto
del 1908 prima e la forsennata ricostruzione poi, infatti, portarono alla
quasi completa eliminazione delle testimonianze artistiche risalenti all’Ottocento.
La gran parte
della statuaria e dell’architettura del neoclassicismo messinese,
stagione artistica particolarmente prolifica, che ebbe quale massimo
teorico nella nostra città l’architetto-scultore Carlo
Falconieri, si trova custodita nel Gran Camposanto.
Di contro, chi di
dovere non sembra, però, molto interessato al valore artistico di
questo pregevole complesso, dove, non solo bisogna fare i conti con
l’inclemenza del tempo che inesorabilmente sta cancellando ogni
memoria del passato, ma anche con i profanatori di tombe che, totalmente
indisturbati, sottraggono dalla parte più antica del cimitero
oggetti di grandissimo valore storico ed architettonico. Anni fa, infatti,
nella zona del “Conventino” presero il largo quattro zampe di
leone marmoree, che facevano da supporto ad un antico sarcofago. Di
recente, è stata asportata la testa del bellissimo monumento al
bambino Francesco Augusto Marangolo dello scultore Giovanni Scarfì
(sec. XIX) ed è stata trafugata una madonnina da un monumento
funerario opera di Antonio Bonfiglio.
Ma i mali del
“monumentale” non finiscono assolutamente qui. Infatti, anche
“l’urne de’ forti” hanno bisogno di essere
salvaguardate, tutelate e protette dalla volgare invadenza di tombe e marmi
policromi che, senza pretese artistiche, vengono realizzati nella zona
monumentale del “Conventino” o nello spiazzo antistante il
“Famedio”, a stretto contatto con opere neoclassiche realizzate
da insigni scultori messinesi.
Nella nostra
città, infatti, la decadenza delle lastre tombali con banali
epigrafi e il dubbio gusto di ritratti del defunto, eseguiti al pantografo
su granito grigio o nero, hanno fatto scadere nella volgarità secoli
di arte scultorea e letteraria funeraria che ha avuto la massima
concentrazione nel Gran Camposanto, il terzo cimitero monumentale
d’Italia dopo quelli di Milano e Genova. Quanta infinita distanza fra
le ipocrisie e i falsi pudori di oggi con la verità nuda e cruda di
ieri che faceva scrivere, su una lapide ottocentesca sempre al “monumentale”:
“Se questa pietra potesse
vivere quanto il dolor dei figli, non sfiderebbe il verme dei
secoli”.
Ancora, è
purtroppo da registrare l’abbandono ed il vergognoso degrado in cui
versano le strutture architettoniche del “Famedio” ed i monumenti
a Giuseppe La Farina dello scultore Gregorio Zappalà; a Giuseppe
Natoli di Lio Gangeri; a Felice Bisazza di Gaetano Russo; a Silvestro La
Farina di Saro Zagari; a Francesco Saya di Giovanni Scarfì.
L’indignazione
dovrebbe qui raggiungere il suo culmine, se si pensa che il cimitero venne
inaugurato, non casualmente, il 6 aprile 1872: quel giorno, infatti, la
città di Torino aveva restituito ai messinesi le ceneri di Giuseppe
La Farina, dopo averle custodite con amore sin dal 1863, accanto a quelle di
Vincenzo Gioberti e Guglielmo Pepe. Quelle città nella quale il
comm. Desiderato Chiaves, deputato al Parlamento nazionale, il 14 marzo
1872, prima che il feretro contenente le ceneri del La Farina fosse
sistemato in un vagone del convoglio ferroviario, diretto da Genova per poi
raggiungere Messina, pronunciò un breve ma significativo discorso: “Signori! Mi sia concesso come
cittadino torinese e come amico e collega un tempo in Parlamento di
Giuseppe La Farina, volgere un ultimo saluto alle ceneri di quest’illustre
italiano che stanno per allontanarsi da noi…Dite ai messinesi che
quando sorga fra le mura della loro Città il monumento che sta ad
erigersi ad onore di questo illustre suo figlio, ricordino nel contemplarlo
non solo il nome e le opere del loro Concittadino ma ancora in quale pregio
lo avesse questa nostra Torino”.
Ad onta ed offesa
del “pregio” con il quale Torino teneva le spoglie mortali di
un così grande personaggio che oltretutto non era suo figlio, oggi
la sua città natale, con tracotante disprezzo, lascia nel più
vergognoso abbandono lo stupendo monumento funerario al La Farina
destinato: marmi anneriti e sbrecciati che non hanno mai conosciuto
l’ombra di un restauro; erbacce e sporcizia dappertutto; coperture
crollate e strutture pericolanti; cornici, stucchi, rivestimenti nella
più totale devastazione; sarcofago contenente i resti mortali,
ricoperto di scritte e graffiti.
Macerie e sfascio
degne di figurare in una delle tante incisioni di “Rovine” del
Piranesi;
“A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti…”, non certo alla progenie messinese attuale, “vil razza dannata”,
immemore ed ingrata.
E sarebbe stato
certamente meglio se le ceneri di Giuseppe La Farina fossero rimaste, per
sempre, a Torino.
Nino Principato
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