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La Pagina Culturale

 

 

Antonello e il rapporto con la sua città.

In alcune sue tele “u ciauru da casa”

 

     In un piovoso ed uggioso pomeriggio messinese di fine febbraio del 1479, mentre lento e monotono si leva il salmodio dei monaci, le spoglie mortali del pittore Antonello degli Antoni, vestite del bruno saio francescano, vengono chiuse per sempre nel buio della cripta della chiesa Santa Maria del Gesù, nella sua città natale. Così aveva voluto lo stesso Antonello dettando le sue ultime volontà al notaio Antonio Mangianti, il 14 dello stesso mese: Item volo et mando quod cadaver meum seppelliatur in convento Sancte Mariae Jhesu cum habitu dicti conventus, et quod in obsequio meo nullus clerus, tam majoris messanensis ecclesiae, quam alius et presertim conventualium, debeat in meo obsequio intervenire, nisi clerus et monaci dicti conventus Sancte Mariae Jhesu.

     Con estrema modestia, senza clamori o pubblici onori nonostante la sua fama fosse ormai consolidata e riconosciuta in tutta Italia, Antonello lasciava per sempre questa terra: …pictor egregius, vivas rerum vivasque pene animalium reddebat effigies aveva detto di lui, l’anno prima della sua morte, il Mangianti nel discorso al Parlamento di Catania. E nel 1493, nella sua “Cronichetta”, il Sanudo avrebbe scritto: …A San Cassan è suo altare…per man del Messinese, et queste figure è si bone che par vive, et non li manca se non l’anima.

     Nasceva nel 1430 Antonello, nella contrada detta dei “Sicofanti” a Messina (nella zona che gravita attualmente presso la “Rampa Operaia” accanto al Monastero di Montevergine, in via XXIV Maggio) e, osserva Bruno Caruso, in quel tempo …il paesaggio siciliano non doveva essere assai dissimile da quello che videro i greci o gli arabi, Archimede o Ibn Hamdis, ma con i templi diruti e le rare torri saracene o i castelli normanni ormai ricoperti dall’edera di qualche secolo, disseminati nella campagna così come qualche anno dopo, presero forma, nello sfondo di taluni dei suoi dipinti.

     Il padre, Giovanni Michele de Antonio, di mestiere fa il “mazonus”, termine allora usato comunemente per indicare quelli che lavoravano la pietra, i marmorari, ma anche i muratori (secondo l’accezione medievale di “maçon”) la madre si chiama Garita (verosimilmente Margherita) e Antonello ha due nonni paterni ancora in vita, Michele de Antonio, capitano di mare, e Annuzza. I primi rudimenti dell’arte li apprende dal padre fino a quando, verso il 1450, giunge il momento di spiccare il volo verso altri lidi, “in  continente”, per studiare e perfezionarsi. Lo accoglie a Napoli Colantonio, caposcuola della pittura napoletana, che ben presto sarà superato dal giovane allievo come ricorderà Pietro Summonte in una lettera del 1524, indirizzata al veneziano Marcantonio Michiel: Costui [il Colantonio] non arrivò, per colpa delli tempi, alla perfezione del disegno delle cose antique, sì come ci arrivò lo suo discepolo Antonello da Messina: homo, secondo intendo, noto appresso a voi.

     È il periodo dei dipinti giovanili del “San Gerolamo penitente”, “Santa Eulalia”, “Santa Rosalia”, “Madonna col Bambino e due angeli reggi-corona”, nei quali il pittore condensa gli stilemi del gusto fiammingo e più spiccatamente nordico, allora di gran moda a Napoli, manifestando particolare interesse nei confronti delle innovazioni tecniche di Jean Van Eyck nella pittura ad olio.

     Intorno al 1455 il ritorno a casa nella sua Messina, dove l’attende Giovanna Cuminella, la “zita” promessa da sposare e con la quale mettere al mondo tre figli, Jacopo, Caterinella e Finia e “casa e putia”, com’era sempre stato in Sicilia, fino all’inizio del nostro secolo – osserva Bruno Caruso -  e che significava anche una linea di buona condotta, di chi non va oltre la casa, la famiglia e la bottega cioè il lavoro. Nel 1457 dipinge un gonfalone per la Confraternita di San Michele dei Gerbini a Reggio Calabria, ad imitazione di quello eseguito per la Confraternita di San Michele a Messina. Fino al 1474 rimane in riva allo Stretto, con brevi puntate a Randazzo, Noto, Caltagirone per opere in quelle città commissionategli; nel 1459 è a Roma, dove s’incontra con Piero della Francesca. È questo il periodo più fecondo della sua attività, quello nel quale sono prodotti quasi tutti i dipinti che conosciamo: le Madonne, le Crocifissioni, gli Ecce Homo, i ritratti, i Gonfaloni per le Confraternite e, poi, le emblematiche “Annunziate”. Nel 1473 realizzerà, per conto del Monastero di San Gregorio a Messina, il celeberrimo omonimo polittico oggi al Museo Regionale che sarà una delle sue ultime opere dipinte nella città natale prima della partenza per Venezia, alla fine del 1474. Qui dipinge la “Pala di San Cassiano”e il “San Sebastiano”, ed è conosciuto come “il pittore di Messina”.

     L’amata città dello Stretto, l’acre odore della salsedine marina, quell’atmosfera rarefatta fra realtà e sogno che solo i pomeriggi sciroccosi messinesi sanno creare, fanno da sfondo alle sue sublimi “Crocifissioni”. Ma c’è di più. “U ciauru da casa” è in lui così viscerale da dipingerlo in una “Pietà con tre angeli”, oggi al Museo “Correr” di Venezia: oltre la figura sofferente di Cristo, si stagliano nitide le absidi merlate della chiesa di San Francesco d’Assisi, ad un tiro di schioppo dalla casa natale, caro e rassicurante luogo della sua infanzia.

     E a Messina Antonello torna nel 1476, com’è nel destino di ogni siciliano tornare alla terra d’origine per seppellirvi le sue ossa, quasi presago che da lì a tre anni avrebbe concluso la sua avventura umana sulla terra. Gli eredi si spartiscono i beni – scrive ancora Bruno Caruso – e nella spartizione vengono fuori oggetti insospettabili della sua vita quotidiana; raffinati vasi di calcedonio, scrigni, argenti, damaschi, coralli, pietre incise; e par di vederli trascorrere come le “vanitas” di un “memento mori” accanto a quei teschi che gli erano stati a modello delle Crocifissioni.

 

Nino Principato

 

 

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