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Miti e leggende dello Stretto di Messina
IL VASCELLUZZO
Il
“Vascelluzzo” è la sintesi emozionale, in forma di
ex-voto d’argento, di tutti i tremendi periodi di carestia che
Messina attraversò durante la sua tormentata storia. Oltre quello
più antico del 1301, altri tristi avvenimenti si verificarono nelle
tremende carestie del sec. XVI, nel 1603, nel 1636 e nel Sabato Santo del
1653: in tutti questi casi, secondo le fonti agiografiche, l’intervento
della Madonna della Lettera fece sì che giungessero in porto,
miracolosamente, navi cariche di frumento.
La presenza di
vascelli in tutti gli eventi prodigiosi, fece nascere anche l’usanza
di collocare nelle chiese messinesi, davanti al SS. Sacramento, lampade che
riproducevano piccoli navigli.
L’incarico
per la realizzazione del prezioso “Vascelluzzo” venne affidato
ad un ignoto cesellatore e già nel gennaio del 1576 la baretta col
vascello d’argento era completata.
Il 7 febbraio, poi,
i confrati della Confraternita di S. Maria di Porto Salvo avanzavano
richiesta agli amministratori cittadini per poter collocare sul
“Vascelluzzo” la “pigna” in cristallo di rocca con
la reliquia dei capelli della Madonna.
A sancire la
“messinesità” e a perpetuare le epocali vicende della
nostra storia, il “Vascelluzzo” reca fasci di spighe di grano
ed è decorato da medaglioni d’argento raffiguranti la Madonna
della Lettera, S. Alberto con la Bibbia ed il giglio, S. Placido ed i suoi
fratelli martiri e la Madonna di Porto Salvo, con sullo sfondo la
città di Messina e la Palazzata.
La raffigurazione
di S. Alberto è legata ad un evento prodigioso avvenuto nel 1301,
quando il duca di Calabria Roberto d’Angiò cinge
d’assedio per terra e per mare Messina. La città si difende
bene e Roberto d’Angiò, che era sbarcato con un forte esercito
a Roccamatore con l’intenzione di marciare verso Messina, alla vista
delle agguerrite forze dei difensori preferisce ritirarsi a Catona in
Calabria, da dove continua a mantenere l’assedio della città
impedendole i rifornimenti di viveri.
Messina è
preda di una forte carestia e allora si tenta l’ultima carta: nel
convento dei Padri Carmelitani al Santo Sepolcro (dove poi sorse la chiesa
di S. Francesco di Paola) vive in odor di santità un monaco, Alberto
degli Abati; a lui si rivolgono re Federico II d’Aragona, lo
stratigò e i magistrati perché impetri da Dio la salvezza
dell’afflitta città.
Alberto invita i
presenti ad assistere alla Messa che celebrerà personalmente. Nel
silenzio carico di tensione, una voce tuonante echeggia tra le volte del
tempio: “Alberte oratio tua exaudita est”.
Pochi giorni dopo,
il leggendario frate templare Ruggero de Flor, con le sei galee di cui
disponeva a Siracusa ed altre quattro comprate da genovesi, si dirige verso
Sciacca. Qui carica di grano le navi e ritorna a Siracusa. Riesce, poi, a
forzare il blocco delle navi di Roberto d’Angiò, approda a
Messina e scarica il frumento che servirà a sfamare l’esausta
popolazione.
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